Tarda estate, selezionato alla 67ª Mostra d’Arte cinematografica di Venezia nella sezione “Controcampo italiano”, è il lungometraggio d’esordio di due giovani film-makers, Marco De Angelis e Antonio Di Trapani, il primo di brillante formazione autodidatta, il secondo laureato in Dams sul cinema documentario di Vittorio De Seta, da anni protagonisti di un sodalizio che ha prodotto anche due cortometraggi di qualità (tra cui, l’ultimo, Voci di rugiada, esplorava già il territorio giapponese e una sua celebre tradizione drammaturgica, il Teatro Nō). È il prodotto della loro partenza, un’opera che basa la propria sceneggiatura e poi la mise en scène sull’avvicinamento progressivo a una leggenda, e a un mondo lontano. Un film che concepisce il suo sviluppo su quella tensione verso un oggetto (per sempre) perduto che giustifica ogni anatomia dell’irrequietezza, ogni film di viaggio che ricerca nel percorso il proprio stile. Con un piccolo finanziamento di Gianluca Arcopinto e della “Fabbrichetta” di Emanuele Nespeca, utilizzando una cinepresa digitale HD fornita insieme all’attrezzatura sonora dal Dipartimento “Comunicazione e Spettacolo” dell’Università “Roma Tre”, i due cineasti partono nell’estate 2009 per Kyoto (Giappone), alla ricerca di luoghi nei quali ambientare l’antica tradizione del Tanabata, una vicenda cosmica che narra del paradiso perduto dei due amanti Hikoboshi, guardiano di mandrie, e Orihime, principessa tessitrice degli dei, puniti per aver dimenticato i propri compiti nel loro oblio amoroso sulle sponde del Fiume Celeste, confinati ai lati opposti della Via Lattea, autorizzati a un unico incontro annuale, in una sera di luglio. Un’avventura universale, un racconto ancestrale di Cielo e Terra, un mito di fondazione di Eros e Thanatos costituisce il grande brodo di cultura dal quale far germogliare un’opera di improvvisazioni dettate dai luoghi, caratterizzata da un’estetica della frugalità che permette alla vicenda del maturo Kenji e del fantasma della sua amante perduta, Noriko, di costruirsi per frammenti progressivi, organizzati intorno a una temporalità sempre reinventata che consente allo spettatore di costruirsi al proprio interno un film di sguardi, nel quale la vicenda è data una volta per tutte e quello che conta sono i segni (impercettibili) di un visivo che nasconde i propri gesti, come fanno i personaggi con le loro parole assenti e la narrazione con le sue ellissi. Un tempo della durata, tempo depositato composto di magiche illuminazioni, laddove la cinepresa fissa o modulata sui movimenti quotidiani dei personaggi costruisce immagini ambigue, nel quale il pensiero del protagonista Kenji (il quale, prima di morire, tornando in patria dall’Italia, riceve le apparizioni della ragazza amata trent’anni prima), pur essendo il filo conduttore di tutto il racconto, appare sempre dislocato, nascosto nei giochi di messa in quadro e di décadrage con i quali i registi sfidano la percezione dello spettatore. Tarda estate è un film di lacrimae rerum, costruito intorno ai volti dei due protagonisti: quello di Hal Yamanouchi, tutto lacrime interiorizzate e silenzio, quello di Chiaki Oshima, vera scoperta del casting (individuata su Myspace dai registi), sensuale come la sua lacrima perennemente trattenuta sui lineamenti purissimi di legno di noce. È un racconto di assenza, legato da una voce fuori quadro che esprime una fortissima pulsione verso l’oggetto (l’amore) perduto, disegnato da un montaggio che ricostruisce costantemente il suo asse temporale inventando di volta in volta i propri raccordi, dilatato da una messa in scena dell’attesa con un punto di vista spesso ad altezza di tatami. Un film d’altri tempi, proprio perché riesce a riflettere sul tempo, uno stile che nel contempo impara a guardare, insegna a guardare.
Gabriele Anaclerio
aprile-giugno 2011