Lo spaesamento è il luogo in cui il ricordo, posto in filigrana sul presente, si rivela simile, ma non troppo.
Giureresti che, a percorrerlo per lungo, questo viale alberato sbuca in una piazza grande e ariosa e, invece, si immette in un vasto lungomare in cui gli scogli si sgretolano nel mare. Pensavi sinceramente che lì ci fosse una casa e, invece, ti rispondono anonimi uffici postali.
È spaesato chi ha vissuto troppo poco in questi posti e ci ritorna vecchio e stanco. Chi unisce allo sbiadirsi di memoria dell’età anche la consuetudine alla lontananza nello spazio e nel tempo. È spaesato chi ha chiamato casa un altro posto e, alla fine, si chiede se non sia piuttosto da chiamare casa questo luogo, così diverso eppure baluginante nel ricordo.
Ma è spaesato anche chi, di casa in un posto lontano, ha sognato tanto a lungo queste strade, ne ha letto, ne ha visto le fotografie e, alla fine, ci arriva e vede tutto vero quel che prima era solo ricordo di qualcun altro.
La differenza è che il primo stenta a recuperare il ricordo in bianco e nero del suo passato, il secondo deve fare proprio un presente che ha conosciuto solo nel racconto.
Tarda estate racconta entrambi i modi di essere spaesati. Il primo nel racconto, il secondo in chi racconta.
Nella storia, Kenji, anziano giornalista di origini giapponesi, torna nella Tokyo che aveva lasciato giovanissimo dopo aver appreso di essere gravemente malato. Il suo viaggio, puntellato di silenzio, riporta a galla rimozioni che il tempo può appena levigare come fa l’acqua coi ciottoli di un fiume. Qui ricorda di Noriko, ragazza che lo amava e che, paziente, aveva atteso inutilmente e fino alla morte il suo ritorno dall’Italia. Il suo fantasma gli fa visita una notte, non vindice, ma discreta presenza di un rimpianto. Il destino dei due amanti è che si incontrano una sola volta, in quello spazio della malattia in cui la vita si confonde con la morte, come avviene l’incontro, una sola volta l’anno nello stesso cielo, delle stelle Vega e Altair. Kenji è spaesato: il luogo che ha davanti, diverso da quello del ricordo gli pare incomprensibile. Non è più il suo, ma l’impressione è che mai lo sia stato. E in questo spazio lui stesso si muove come un fantasma impermeabile e trasparente alle vite e confusioni altrui.
Al di qua del film sono spaesati anche i due registi che, dopo Voci di rugiada, primo esperimento sui tempi e gli stili della narrazione di stampo nipponico, vanno in Giappone in cerca di Ozu e Mizoguchi.
Il loro esperimento è, certo, inedito nel panorama complessivo del cinema italiano: mimetizzarsi nella cultura giapponese, indossarla come un kimono stretto, parlare la sua lingua altra fatta di immagini sin dal modo di scrivere le parole.
Loro sono i viaggiatori che si lasciano attraversare da quel Giappone così lungamente amato da volercisi confondere dentro.
Il primo spaesamento, quello narrato, segue lento le tappe di un racconto che si ingarbuglia nel flusso di coscienza del suo protagonista e appare autentico sinché non interviene il secondo spaesamento, quello di chi narra, che resta, invece, nello spettatore, come l’ombra di un sospetto.
Ronzante come un’insinuazione, avanza, infatti, il dubbio che il modo di raccontare prenda il sopravvento sul narrato, che l’esercizio di stile sia più importante del sentimento e che, anzi, ci si chieda di vedere il sentimento solo nell’esercizio di stile.
È, questa, in fondo, la condanna di un’operazione di questo tipo. Gli autori conoscevano il rischio insito nel mettersi dietro ad obiettivi giapponesi. Il loro merito è di averci creduto fino alla fine, senza mai scendere a compromessi con la loro idea di cinema e l’amore che le portano.
A noi non resta, invece, che aspettare che sia il Tempo a decidere se sotto questa maschera di Teatro Nō ci siano un’anima che palpita e le ragioni di una poesia capace davvero di andare al di là di lingue e di culture.
La qualità audio-video
Eccellente il quadro. Nitido, pulito, spaziato sia durante la riproduzione del film che durante quella del corto ospitato nel DVD come extra.
Ottimo anche l’audio che rivela la sua pulizia nelle lunghe assenze, nei silenzi, nei rumori di vento o nei fruscii che costellano il film.
Extra
Il libro allegato è una sceneggiatura sempre di Marco De Angelis e Antonio Di Trapani: L’attesa. Piccola teofania di grande suggestione, la sceneggiatura colpisce per la sua capacità di procedere per sottrazioni, per allusioni, in un linguaggio scarno, sobrio eppure limpido. Nell’estrema rarefazione del narrare ritroviamo ancora quel fascino misterico, quella dimensione sospesa che era cuore vitale sia di Tarda estate che di Voci di rugiada.
Alessandro Izzi
16/10/2012