Il ruolo della memoria di fronte alla precarietà dell’esistenza è ancora una volta al centro dell’opera di Marco De Angelis e Antonio Di Trapani, qui alle prese con una materia cinematografica in continua mutazione, in fuga da un genere all’altro
Se il fiore del giglio rappresenta la caducità della vita umana, le statue scolpite nella Chiesa di Piedigrotta, magnifico luogo di culto seicentesco scavato in una grotta sedimentaria a nord di Pizzo Calabro, sono invece la testimonianza di una forza imperitura, come l’amore. Questi sono solo alcuni elementi che vanno a nutrire la vasta simbologia di White Flowers, quelli che rappresentano i due estremi di una vicenda romantica sospesa tra la mortalità della carne e l’eternità dello spirito. Con questo melodramma in cui il gangster movie si mescola al noir e i toni da commedia romantica si trasfigurano nella ghost story, Marco De Angelis e Antonio Di Trapani tornano col loro terzo lungometraggio alla 55ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro tra le Proiezioni speciali, dopo aver partecipato in concorso e aver ricevuto la Menzione speciale della giuria con Terra nel 2015, prodotti anche allora da Emanuele Nespeca e Vito Zagarrio con Università Roma Tre e Solaria Film.
Il ruolo della memoria di fronte alla precarietà dell’esistenza è ancora una volta al centro dell’opera dei due registi. In Terra la testimonianza del passaggio dell’uomo sul nostro pianeta si riduceva a un caotico archivio multimediale, unico rimedio all’oblio dell’imminente catastrofe apocalittica annunciata nel film – ma anche residuo di un’estinzione già avvenuta. In White Flowers sono invece i tanti oggetti, segni, tracce uditive disseminati lungo il film, pezzi di un mosaico da ricomporre e riconvertire in ricordo grazie alla forza della narrazione letteraria, a favorire il risveglio identitario di un uomo che ritrovando il proprio amore perduto ritroverà anche sé stesso. Yuki (Yuki Iwasaki) è infatti una giovane disegnatrice giapponese giunta in Italia in cerca di ispirazione per il suo prossimo manga. Quando conosce un misterioso corniciaio senza memoria (Ivan Franek) inseguito da uomini sinistri, la ragazza inizia a immaginare un passato per l’uomo, insieme al quale si mette in viaggio seguendo la pista tracciata dalla fotografia di uno chalet innevato. Nel frattempo realtà e fantasia cominciano però a sovrapporsi e la storia narrata dall’illustratrice si scopre essere il vero passato dell’uomo.
White Flowers si aggira come la sua protagonista – in grado, come apprenderemo, di comunicare con i defunti – in un territorio liminale tra la vita e la morte, dove gli spazi – merito anche dell’interessante scelta delle location, tra cui il Museo di storia naturale di Genova in cui si parla di tassidermia di fronte a delle teche di animali impagliati – diventano soglie aperte a forze visibili e invisibili che fanno del tempo una dimensione da percorrere alla ricerca del dettaglio da ricollocare. Spazi museali e luoghi sacri, in ogni caso luoghi della memoria, in cui il dato materiale si fa depositario di un sentire in attesa di riscoperta. Girato tra Liguria, Calabria e Giappone, attraversato da una molteplicità linguistica (giapponese, inglese, italiano) e interpretato tra gli altri dal nipponico Hal Yamanouchi – presenza immancabile nei lungometraggi dei due autori – e dal ceco Ivan Franek, White Flowers è un viaggio tra Occidente e Oriente plasmato con sguardo lirico. Un tributo ai tempi e all’estetica contemplativa del cinema giapponese – caro ai registi fin dall’omaggio a Ozu nel titolo del primo film, Tarda Estate – che guarda in modo consapevole a una sensibilità europea e si lascia spesso attrarre da una fascinazione per certi stilemi lynchani (evocati fin dall’uso di sovraimpressioni dal taglio impressionista, dalla presenza di personaggi bizzarri decontestualizzati rispetto all’ambiente, da sonorità pastose e di impatto straniante, come il misterioso gracchiare che ricorda quello di un grammofono, con tanto di caschetti biondo platino anni Sessanta e citazione kafkiana da Il processo).
Abili nel congegnare una partitura dove il genere si trova destrutturato e non rischia mai di avviluppare il film all’interno delle sue logiche, De Angelis e Di Trapani mantengono la propria libertà narrativa proprio attraverso una materia in continua mutazione, fatta di virate improvvise che hanno il merito di non suonare mai come stonature. I registi giocano con questa incursione nel genere che è al tempo stesso e soprattutto un modo ulteriore per uscirne. Un compendio che riflette la mole di suggestioni, riferimenti visivi e musicali, dettagli e oggetti che si susseguono senza riuscire però a consolidare del tutto una storia concettualmente fragile. Del resto, è lo stesso Di Trapani ad affermare che «il film ha una sua fragilità che anche un colpo di tosse può spezzare».
Riccardo Bellini
24/06/2019
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